Principi di educazione cristiana

Capitolo 7

Vita di grandi uomini

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La storia biblica riporta molte illustrazioni sui risultati della vera educazione, e presenta tanti nobili esempi di persone la cui vita fu una benedizione per il prossimo perché vissero come rappresentanti di Dio. Fra loro ricordiamo Giuseppe, Daniele, Mosè, Eliseo e Paolo.

Ancora adolescenti, proprio quando dalla fanciullezza stavano passando all'età adulta, Giuseppe e Daniele furono strappati alle loro case e condotti prigionieri in terra pagana. In modo particolare Giuseppe fu esposto alle tentazioni che accompagnano quei grandi mutamenti che si verificano in modo fortuito.

Che cosa lo aiutò a conservarsi integro quando era il figlio caro e prediletto nella casa paterna? Quando in casa di Potifar, dapprima schiavo, ne divenne il confidente e il compagno? Quando nel carcere di faraone, prigioniero di stato, condannato ingiustamente, era senza alcuna speranza di liberazione? E quando, finalmente, in un'ora particolarmente critica, fu chiamato a governare una nazione?

Nessuno può rimanere, senza pericolo, in un posto in vista. Come la tempesta lascia intatti i fiori della valle e sradica gli alberi sulla cima dei monti, così le più impetuose tentazioni, che lasciano tranquilli coloro che nella vita occupano una posizione umile, si abbattono su quelli che occupano nel mondo i più alti posti d'onore e di successo. Giuseppe seppe sopportare sia la prova dell'avversità sia quella della prosperità, dimostrando un'immutata fedeltà alla corte di Faraone come già nella cella del carcere.

Giuseppe, nella sua infanzia, aveva imparato ad amare e a temere Dio. Spesso, nella tenda del padre, sotto le stelle di Siria, aveva udito il racconto della visione notturna di Betel, della scala fra il cielo e la terra, degli angeli che salivano e scendevano, di colui che dal suo trono eccelso si era rivelato a Giacobbe. Aveva udito il racconto della lotta sul fiume Iabboc, quando il padre, rinunciando al peccato, si era reso vincitore e aveva ricevuto il titolo di principe di Dio.

Quando, giovanetto, pascolava le greggi paterne, la vita pura e semplice aveva favorito in lui lo sviluppo delle energie fisiche e mentali. Dalla comunione con Dio attraverso la natura e lo studio delle grandi verità trasmesse come santo deposito di padre in figlio, egli aveva acquisito vigore di mente e fermezza di princìpi.

Nella crisi della sua vita, durante quel tremendo viaggio dalla casa paterna in Canaan verso la schiavitù di Egitto, Giuseppe si ricordò del Dio di suo padre. Ricordò le lezioni ascoltate da bambino, e la sua anima fremette alla determinazione di agire come si conviene a un suddito del Re del cielo.

Nell'amara schiavitù in terra straniera, in mezzo ai vizi di un culto pagano, circondato dalle attrattive della ricchezza, della cultura e del fasto regale, Giuseppe rimase saldo perché aveva imparato la lezione dell'ubbidienza al dovere.

Quando fu chiamato alla corte di faraone, l'Egitto era la nazione più grande di tutte. Per civiltà, arte e sapere, non aveva rivali. Nel periodo della massima difficoltà e del maggior pericolo, Giuseppe amministrò gli affari del regno e lo fece in modo tale da conquistarsi la fiducia del re e del popolo tanto che faraone "lo stabilì Signore della sua casa e governatore di tutti i suoi beni, per istruire i princìpi secondo il suo giudizio e insegnare ai suoi anziani la sapienza". Salmi 105:21, 22.

La parola ispirata ci rivela il segreto della vita di Giuseppe. Con parole di divina potenza e bellezza, Giacobbe, nel benedire i figli, disse di questo suo amatissimo: "Giuseppe è un albero fruttifero; un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro. Gli arcieri lo hanno provocato, gli hanno lanciato frecce, lo hanno perseguitato, ma il suo arco è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d'Israele, dal Dio di tuo padre che ti aiuterà e dall'Altissimo che ti benedirà con benedizioni del cielo di sopra, con benedizioni dell'abisso che giace di sotto... Le benedizioni di tuo padre sorpassano le benedizioni dei miei progenitori, fino a raggiungere la cima delle colline eterne. Esse saranno sul capo di Giuseppe, sulla fronte del principe dei suoi fratelli". Genesi 49:22-26.

La fedeltà a Dio, la fede nell'Invisibile fu l'ancora di Giuseppe, il segreto della sua forza.

Daniele, ambasciatore del cielo

Durante il loro soggiorno in Babilonia, Daniele e i suoi giovani compagni, apparentemente furono più favoriti dalla sorte di quanto lo fosse stato Giuseppe appena giunto in Egitto; tuttavia, anch'essi furono sottoposti a prove non meno severe: giovani di stirpe reale, deportati nella città più bella dell'epoca, alla corte del più grande monarca del tempo, furono scelti per essere preparati per il servizio speciale del sovrano. Le tentazioni di quella corte lussuosa e corrotta erano molto forti. Il fatto che essi, adoratori dell'Altissimo, erano prigionieri in Babilonia; che i vasi della casa di Dio erano stati posti nel tempio degli dèi di Babilonia; che lo stesso re d'Israele era prigioniero dei babilonesi, era indicato sprezzantemente dai vincitori come una dimostrazione della superiorità della loro religione e dei loro costumi sulla religione e i costumi degli ebrei. Fu proprio in tali circostanze, attraverso le tristi umiliazioni derivate dall'allontanamento d'Israele dai suoi comandamenti, che Dio diede a Babilonia la prova evidente della sua supremazia, della santità delle sue esigenze e del sicuro risultato dell'ubbidienza. Questa testimonianza Dio la dette nel solo modo possibile: per mezzo di coloro che erano rimasti saldi e fedeli.

All'inizio della carriera, Daniele e i suoi tre compagni furono sottoposti a una prova decisiva. L'ordine che il loro cibo provenisse dalla mensa reale era l'espressione del favore del monarca e del suo personale interessamento al loro benessere. Però, dato che una parte di esso era stato offerto agli idoli, ne derivava che gli alimenti della tavola del re erano stati consacrati all'idolatria e che, cibandosene, quei giovani sarebbero stati considerati favorevoli all'omaggio tributato ai falsi dèi. La fedeltà al Signore impediva loro, perciò, di toccare quei cibi.

Daniele e i suoi compagni erano stati fedelmente istruiti nei princìpi della Parola di Dio e avevano imparato a sacrificare le cose temporali a quelle dello spirito, e ne ottennero il premio. Alla fine del periodo di preparazione, essi furono esaminati con altri candidati per vedere se fossero idonei agli onori del regno, e "...non se ne trovò nessuno che fosse pari a Daniele, Anania, Misael e Azaria". Daniele 1:19.

Alla corte babilonese vi erano rappresentanti di tutti i paesi, uomini di raro talento, con la maggiore cultura che il mondo potesse offrire; eppure fra tutti questi, i deportati ebrei non ebbero rivali: rimasero ineguagliati per forza fisica, per vigore morale e per conoscenza letteraria. "Su tutti i punti che richiedevano saggezza e intelletto, sui quali il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i magi e astrologi che erano in tutto il suo regno". Daniele 1:20.

Incrollabile nella sua alleanza con Dio, fermo nel dominio di sé, con nobile dignità e gentile rispetto, il giovane Daniele seppe assicurarsi il favore e l'affetto dell'ufficiale pagano alle cui cure era stato affidato. Queste sue caratteristiche rimasero immutate con il passare degli anni, tanto da farlo assurgere rapidamente alla posizione di primo ministro. Durante tutta la reggenza dei successivi monarchi, al momento del crollo della nazione, allo stabilimento di un regno rivale, talmente grandi erano la sua sapienza e la sua capacità di uomo di stato, così perfetti il suo tatto, la sua cortesia e la sua sincera bontà d'animo, uniti alla fedeltà ai princìpi, che gli stessi suoi nemici furono costretti ad ammettere che "...non potevano trovare alcuna occasione né alcun motivo di riprensione, perché egli era fedele". Daniele 6:4.

Mentre Daniele rimaneva così strettamente unito a Dio da una fede incrollabile, la potenza dell'ispirazione profetica scese su di lui. Fu onorato da Dio come suo ambasciatore e istruito a leggere i misteri dei secoli futuri. I monarchi pagani, in contatto con i rappresentanti del cielo, furono spinti a conoscere il Dio di Daniele. "In verità il vostro Dio", disse il re Nabucodonosor, "è il Dio degli dèi, il Signore dei re e il rivelatore dei segreti". Daniele 2:47. Re Dario, nel suo decreto esaltò il Dio di Daniele come "il Dio vivente che dura in eterno; il suo regno non sarà mai distrutto"; egli è colui che "libera e salva, fa segni e prodigi in cielo e in terra". Cfr. Daniele 6:25-27.

Uomini giusti e onesti

Per la saggezza e la giustizia dimostrate, per la purezza e la bontà espresse nella loro vita quotidiana e per la dedizione agli interessi del popolo, Giuseppe e Daniele continuarono a essere fedeli ai princìpi conosciuti in gioventù di colui del quale erano i rappresentanti. Questi due uomini, uno in Egitto e l'altro in Babilonia, furono onorati da tutta la nazione. In loro, un popolo pagano vide riflessi la bontà e la generosità di Dio, nonché l'amore di Cristo.

Quale vita fu quella di questi nobili ebrei! Quando dissero addio alla casa della loro infanzia, neppure lontanamente avrebbero immaginato il loro alto destino. Fedeli e fermi, si abbandonarono alla guida divina, cosicché Dio per mezzo loro poté attuare il suo proposito.

Le stesse grandi verità, che furono rivelate mediante questi uomini, Dio desidera rivelarle per mezzo dei giovani e dei bambini di oggi.

Il più grande bisogno del mondo è il bisogno di uomini che non si possono né comprare né vendere; uomini che sono leali e onesti fino nell'intimo del loro animo; uomini che non hanno paura di chiamare il peccato con il suo vero nome; uomini la cui coscienza è fedele al dovere come l'ago magnetico lo è al polo; uomini che stanno per la giustizia anche se dovessero crollare i cieli.

Un tale carattere non è però il risultato del caso, e non è dovuto a speciali favori o doni della provvidenza: un carattere nobile è il risultato dell'autodisciplina, della sottomissione della natura inferiore a quella superiore: della resa dell'io per un servizio d'amore a Dio e agli uomini. I giovani devono tenere presente che i doni di cui dispongono non appartengono a loro: forza, tempo, intelletto appartengono a Dio, e ogni giovane dovrebbe decidere di farne l'uso migliore. Egli è un ramo dal quale il Signore si aspetta del frutto; un amministratore, il cui capitale deve crescere; una luce che squarcia le tenebre del mondo. Ogni giovane, ogni bambino ha un'opera da compiere in onore di Dio e per il bene dell'umanità.

Eliseo, fedele nelle piccole cose

Il profeta Eliseo trascorse i primi anni della sua vita nella campagna imparando da Dio, dalla natura e dalla disciplina di un lavoro utile. In un'epoca di quasi generale apostasia, i familiari di suo padre erano fra coloro che non avevano piegato le ginocchia davanti a Baal. In casa sua si onorava Dio e la fedeltà al dovere costituiva la regola della vita quotidiana.

Figlio di un ricco agricoltore Eliseo, pur avendo le capacità di un capo, aveva ricevuto una formazione semplice per adempiere i comuni doveri della vita. Per dirigere con saggezza doveva imparare a ubbidire, e fu con la fedeltà nelle piccole cose che venne preparato a responsabilità più gravose.

Di spirito mansueto e dolce, Eliseo possedeva anche energia e fermezza. Egli coltivava l'amore e il timore di Dio e, nell'umile ambito del lavoro quotidiano, acquisiva forza di volontà, nobiltà di carattere, mentre cresceva nella grazia e nella conoscenza divina.

La chiamata profetica gli giunse mentre arava il campo con i servi del padre. Quando Elia, diretto da Dio alla ricerca di un successore, gettò il suo mantello sulle spalle del giovane, Eliseo comprese l'invito e lo accettò; "...seguì Elia, e si mise al suo servizio". 1 Re 19:21. Non fu un gran compito quello inizialmente richiesto a Eliseo: i lavori comuni costituirono ancora la sua disciplina. Come attendente personale del profeta, egli continuò a dimostrarsi fedele nelle piccole cose, mentre ogni giorno si rafforzava in lui il proposito di consacrarsi alla missione assegnatagli da Dio.

La sua determinazione fu messa alla prova lo stesso giorno della chiamata. Mentre si volgeva per seguire Elia, gli fu ordinato dal profeta di tornare a casa. Eliseo capì il valore dell'opportunità che gli veniva offerta: per nessun vantaggio terreno egli avrebbe rinunciato alla possibilità di diventare il messaggero di Dio.

Passò il tempo, e mentre Elia si stava preparando per la traslazione, Eliseo fu formato per diventarne il successore. Di nuovo la sua fede e la sua decisione furono messe alla prova. Nell'accompagnare il profeta in un ultimo incarico di servizio, fu ripetutamente invitato da questi a tornarsene indietro. Eliseo, che nel suo antico lavoro di aratura dei campi aveva imparato a non desistere e a non perdersi di animo, ora che aveva messo mano all'aratro nel campo del dovere non intendeva affatto essere allontanato dal suo proposito.

"E proseguirono il cammino insieme. ... si fermarono sulla riva del Giordano. Allora Elia prese il suo mantello, lo arrotolò e percosse le acque, le quali si divisero in due. Così attraversarono il fiume a piedi asciutti. Quando furono passati, Elia disse a Eliseo: 'Chiedi quello che vuoi che io faccia per te, prima che io ti sia tolto'. Eliseo rispose: 'Ti prego, mi sia data una parte doppia del tuo spirito!'. Elia disse: 'Tu domandi una cosa difficile; tuttavia, se mi vedi quando io ti sarò rapito, ti sarà dato quello che chiedi; ma, se non mi vedi, non ti sarà dato'. Essi continuarono a camminare discorrendo insieme, quand'ecco un carro di fuoco e dei cavalli di fuoco che li separarono l'uno dall'altro, ed Elia salì al cielo in un turbine. Eliseo lo vide e si mise a gridare: 'Padre mio, padre mio! Carro e cavalleria d'Israele!'. Poi non lo vide più. E, afferrate le proprie vesti, le strappò in due pezzi; raccolse il mantello che era caduto di dosso a Elia, tornò indietro, e si fermò sulla riva del Giordano; e, preso il mantello che era caduto di dosso a Elia, percosse le acque e disse: 'Dov'è il Signore, Dio d'Elia?'. Quando anch'egli ebbe percosso le acque, queste si divisero in due, ed Eliseo passò. Quando i discepoli dei profeti che stavano a Gerico, di fronte al Giordano videro Eliseo, dissero: 'Lo spirito d'Elia si è posato sopra Eliseo'. Gli andarono incontro, si prostrarono fino a terra davanti a lui". 2 Re 2:6-15.

Da quel momento Eliseo prese il posto di Elia e, come era stato fedele nelle piccole cose, lo fu anche nelle grandi.

Elia, uomo potente, era stato lo strumento di Dio per eliminare dei mali enormi: era stata abbattuta l'idolatria che aveva sedotto la nazione; erano stati uccisi i profeti di Baal. Tutto Israele era stato profondamente scosso e molti ritornarono ad adorare Dio. Scomparso Elia, occorreva qualcuno che potesse guidare il popolo per sentieri sicuri con l'ausilio di un insegnamento attento e paziente. L'educazione impartita a Eliseo durante l'infanzia sotto la direzione divina, lo aveva formato proprio per questo compito.

La lezione è per tutti. Nessuno può sapere quale scopo si prefigga la disciplina di Dio, ma tutti possono essere certi che la fedeltà nelle piccole cose rende idonei a maggiori responsabilità.

Mosè, potente attraverso la fede

Quando fu strappato dalle cure e dalla protezione della famiglia, Mosè era più giovane di Giuseppe e di Daniele; tuttavia gli stessi influssi che avevano plasmato la vita di questi due grandi uomini, modellarono anche la sua. Egli trascorse solo dodici anni con i suoi familiari, ma durante questo periodo furono poste le basi della sua futura grandezza per opera di una persona poco conosciuta.

Iochebed era una schiava: la sua sorte nella vita era umile, il suo fardello pesante. Eppure, tranne Maria di Nazaret, nessun'altra donna ha recato al mondo una più grande benedizione. Sapendo che il figlio le sarebbe stato tolto presto per essere educato da chi non conosceva Dio, con il maggior impegno possibile essa si adoperò per inculcare nel suo cuore l'amore e la fedeltà per Dio. L'opera fu portata a termine accuratamente. Nessun influsso successivo poté indurre Mosè ad abbandonare quei princìpi di verità che rappresentavano il tema principale dell'insegnamento materno, e che avevano costituito la stessa vita di Iochebed.

Dalla sua umile casa nella terra di Goscen, Mosè passò al palazzo di Faraone, accolto dalla principessa egizia come figlio amato. Nelle scuole egiziane, Mosè conseguì la più alta istruzione civile e militare. Dotato di grande fascino, bello, alto, colto, dal portamento regale, rinomato come capo militare, egli diventò l'orgoglio della nazione. Mosè, sebbene rifiutasse di partecipare al culto pagano, fu iniziato a tutti i misteri della religione egizia. In qualità di futuro sovrano, era erede degli onori più ambiti che il mondo potesse offrire; ma per l'onore di Dio e per la liberazione del suo popolo oppresso, egli rinunciò alle glorie dell'Egitto e il Signore, in modo speciale, si prese cura della sua formazione.

Mosè, però, non era ancora pronto per la grande opera della sua vita: doveva imparare la sottomissione al potere divino. Essendosi ingannato circa i piani di Dio, egli sperava di poter liberare Israele con la forza delle armi. Per questo Mosè rischiò tutto, e fallì. Sconfitto e deluso se ne andò in esilio in terra straniera.

Nella solitudine di Madian, il futuro condottiero d'Israele trascorse quarant'anni come pastore di armenti. Apparentemente esonerato per sempre dalla sua missione, in realtà egli stava esercitando la disciplina indispensabile alla sua attuazione. La saggezza di cui avrebbe avuto bisogno per governare un popolo ignorante e indisciplinato doveva essere acquisita mediante il dominio di sé. Era con la cura delle pecore e degli agnellini che Mosè doveva formarsi quell'esperienza che avrebbe fatto di lui il fedele e paziente pastore d'Israele. Per diventare il rappresentante di Dio doveva essere istruito da lui.

Gli influssi dai quali era stato circondato in Egitto, il lusso e il vizio che in mille forme avevano esercitato il loro richiamo, le sottigliezze e il misticismo di una religione falsa avevano prodotto una profonda impressione sulla sua mente e sul suo carattere. Tutto ciò scomparve nella rigida disciplina del deserto.

In mezzo alla solenne maestà delle montagne solitarie, Mosè fu solo con Dio. Gli parve di trovarsi alla sua presenza e di essere coperto dall'ombra dell'Onnipotente. Svanì qui la sua autosufficienza, perché di fronte all'Essere infinito egli sentì quanto l'uomo sia debole, limitato, insufficiente. Fu qui che Mosè percepì il senso della personale presenza di Dio. Egli non vide solo la futura manifestazione di Cristo incarnato, ma anche il Figlio di Dio accompagnare le schiere d'Israele in tutte le loro peregrinazioni. Quando, incompreso e calunniato, fu chiamato a sopportare i rimproveri e gli insulti, Mosè rimase saldo "come se vedesse colui che è invisibile". Ebrei 11:27.

Mosè non si limitò a pensare a Dio, lo vedeva sempre: mai perse di vista il suo volto.

Per Mosè la fede non era una congettura, ma una realtà. Egli credeva che Dio dirigeva sempre la sua vita, e così lo seppe riconoscere in ogni circostanza. In lui si confidò per ricevere la forza, per vincere la tentazione. Consapevole del proprio bisogno di aiuto, lo chiese e per fede lo afferrò nella certezza del soccorso divino.

Fu questa l'esperienza che Mosè fece durante i quarant'anni trascorsi alla scuola del deserto. Dio, nella sua saggezza infinita, non stimò troppo lungo quel periodo di tempo o troppo alto il prezzo per formarsi una tale esperienza.

I risultati di questa preparazione e delle lezioni allora impartite, non sono legati unicamente alla storia d'Israele, ma a tutto ciò che da allora fino ai nostri giorni ha potuto contribuire al progresso del mondo. La più grande testimonianza resa alla grandezza di Mosè è il giudizio dato della sua vita dalla Parola ispirata: "Non c'è mai più stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale il Signore abbia trattato faccia a faccia". Deuteronomio 34:10.

Paolo, felice nel servizio

Il fiero vigore e la forza intellettuale di un dottore della legge di Gerusalemme si unirono, nell'opera del Vangelo, alla fede e all'esperienza dei discepoli galilei. Cittadino romano, nato in una città pagana, giudeo non solo di nascita ma anche e soprattutto per educazione, per ardore patriottico e per fede religiosa, allevato a Gerusalemme dal più eminente dei rabbini, istruito in tutte le leggi e le tradizioni dei padri, Saulo da Tarso rappresentava totalmente l'orgoglio e i pregiudizi della sua nazione. Ancora giovane, diventò membro onorato del Sinedrio e fu da tutti considerato uomo dal grande avvenire, difensore zelante dell'antica fede.

Nelle scuole teologiche di Giudea la Parola di Dio era stata messa da parte e sostituita dalle speculazioni umane; era stata defraudata della sua potenza dalle interpretazioni e dalle tradizioni rabbiniche. Quei maestri si vantavano della loro superiorità, non solo sulle altre nazioni, ma anche sulle masse dei propri connazionali. Nel loro odio verso gli oppressori romani, essi nutrivano il proposito di riconquistare con la forza delle armi la loro supremazia nazionale. I seguaci di Cristo, il cui messaggio di pace era così contrario ai loro ambiziosi progetti, erano odiati e messi a morte. In questa persecuzione, Saulo fu uno dei più duri e inflessibili protagonisti.

Nelle scuole militari d'Egitto, Mosè aveva imparato la legge della forza. Questo insegnamento aveva avuto una così forte presa sul suo carattere che occorsero quarant'anni di quiete e di comunione con Dio e a contatto con la natura perché fosse reso idoneo a guidare Israele con la legge dell'amore. Anche Paolo doveva imparare la stessa lezione.

Alla porta di Damasco, la visione di colui che era stato crocifisso cambiò l'intero corso della sua vita. Il persecutore diventò un discepolo; l'insegnante diventò un allievo. I giorni di tenebre trascorsi a Damasco furono per la sua esperienza come anni interi. Gli scritti dell'Antico Testamento accumulati nella sua mente costituirono l'oggetto dei suoi studi e Gesù fu il suo maestro. Anche per Paolo la solitudine della natura divenne scuola di vita: egli infatti andò nel deserto dell'Arabia per studiarvi le Scritture e imparare da Dio; potè in tal modo svuotare il proprio spirito di tutti quei pregiudizi e di quelle tradizioni che avevano fin a quel momento plasmato la sua vita e attingere la sua istruzione direttamente dalla Fonte della verità.

Paolo, il più grande fra i maestri umani, accettò i doveri più umili come pure i più nobili. Egli riconobbe la necessità del lavoro manuale e di quello mentale impegnandosi come artigiano per il proprio sostentamento. Pur predicando ogni giorno il Vangelo nei grandi centri cittadini, egli continuò nel suo consueto lavoro di fabbricante di tende.

Paolo, in possesso di grandi doti intellettuali, fornì anche prova di rara saggezza. Nei suoi insegnamenti, come pure nella vita, illustrò princìpi ignorati dalle più eccelse menti del suo tempo. Ascoltate le parole che rivolse ai pagani di Listra, e notate come addita loro Dio rivelato nella natura, fonte di ogni bene, che dà "piogge e stagioni fruttifere, ... cibo in abbondanza e letizia". Atti 14:17.

Osservatelo nel carcere di Filippi dove, nonostante il dolore delle percosse ricevute, il suo canto di lode rompe il silenzio della notte. Dopo che un terremoto ha spalancato le porte del carcere, la sua voce si leva ancora per rivolgere parole d'incoraggiamento al carceriere: "Non farti del male, perché siamo tutti qui". Atti 16:28. Ogni prigioniero, infatti, è al proprio posto, trattenuto dalla presenza di Paolo. E il carceriere, convinto della realtà di quella fede che sostiene l'apostolo, chiede quale sia la via della salvezza; e con la sua famiglia si unisce alla schiera dei perseguitati discepoli di Cristo.

Guardatelo ad Atene, nell'Areopago, dove oppone scienza a scienza, filosofia a filosofia, logica a logica. Notate con quale tatto, con quanta cortesia, frutto dell'amore di Dio, egli presenta il Signore come il "Dio sconosciuto" che i suoi uditori hanno adorato senza forse rendersene conto; e come, con parole prese da uno dei loro poeti, egli definisce questo Dio il padre del quale essi tutti sono i figli.

Uditelo alla corte di Festo, quando re Agrippa, convinto della verità del Vangelo, esclama: "Per poco non mi convinci a farmi cristiano" e con quanta sensibilità e cortesia Paolo, indicando le proprie catene, replica: "Faccio voti a Dio che, presto o tardi, non solo tu ma anche tutti coloro che oggi mi ascoltano, diveniate come appunto sono io, salvo queste catene". Atti 26:28, 29 (Concordata).

Nel servizio egli trovò la gioia, e alla fine della sua vita di duro lavoro, nel rievocare le lotte e le vittorie, potè dire: "Ho combattuto il buon combattimento...". 2 Timoteo 4:7.

Queste storie sono di vitale interesse e di grande importanza soprattutto per i giovani. Mosè rinunciò alla prospettiva del regno; Paolo ai vantaggi della ricchezza e dell'onore fra il suo popolo. A molti la vita di questi uomini può sembrare piena soltanto di rinunce e sacrifici. Fu davvero così? Mosè stimò gli oltraggi di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto. Paolo disse: "Ciò che per me era un guadagno, l'ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all'eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo". Filippesi 3:7, 8.

A Mosè furono offerti il palazzo di faraone e il trono; ma presso quelle corti sfarzose c'erano piaceri immorali che portano l'uomo a dimenticare Dio, ed egli preferì "i beni duraturi e la giustizia". Proverbi 8:18. Anziché legarsi alla grandezza dell'Egitto, Mosè scelse di consacrare la propria vita al programma di Dio; piuttosto che promulgare leggi per l'Egitto, egli diventò uno strumento nelle mani di Dio per dare al mondo quei princìpi che rappresentano la base del benessere per la famiglia e la società, princìpi oggi riconosciuti dai più eminenti uomini del mondo, come l'espressione di quanto di meglio ci possa essere nei governi umani. La grandezza dell'Egitto è nella polvere; ma l'opera di Mosè non può andare distrutta, perché i grandi princìpi di giustizia, ai quali egli consacrò l'esistenza, sono eterni.

La vita faticosa e densa di preoccupazioni vissuta da Mosè fu illuminata dalla presenza di colui che "si distingue fra diecimila" e la cui "persona è un incanto". Cfr. Cantico dei Cantici 5:10; Cantico dei Cantici 5:16. La sua vita fu benefica e benedetta sulla terra, e onorata in cielo.

Anche Paolo, nelle sue molteplici attività, fu sorretto dalla forza consolatrice della presenza di Cristo. "Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica" (Filippesi 4:13), egli disse. Era una gioia futura quella alla quale Paolo guardava come ricompensa alle sue fatiche, la stessa che spinse Cristo ad affrontare la croce e a disprezzare l'infamia: la gioia di vedere il risultato dell'opera svolta. Ai credenti di Tessalonica l'apostolo scriveva: "Qual è infatti la nostra speranza, o la nostra gioia, o la corona di cui siamo fieri? Non siete forse voi, davanti al nostro Signore Gesù quand'egli verrà? Sì, certo, voi siete il nostro vanto e la nostra gioia". 1 Tessalonicesi 2:19, 20.

Chi può valutare gli effetti che ebbe per il mondo l'opera di Paolo? Quanto è dovuto alla predicazione di Paolo e dei suoi collaboratori, nei loro viaggi spesso inosservati dall'Asia alle coste d'Europa? Quanti benefici influssi che alleviano le sofferenze, che confortano nel dolore, che frenano il male, che nobilitano la vita sottraendola all'egoismo e alla sensualità ma la glorificano con la speranza dell'immortalità, derivano dal Vangelo del Figlio di Dio? Quale gioia nella vita è maggiore di quella che scaturisce dalla consapevolezza di essere stati strumenti di Dio? Quale gioia, nell'eternità, sarà maggiore di quella di colui che vede il risultato di una simile opera?