Il gran conflitto

Prefazione

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Il gran conflitto è certamente un libro che vuole scuotere. O lo si ama o lo si detesta, raramente lascia indifferenti. Più che informare, vuole formare nel lettore una prospettiva della storia ed è questa sua caratteristica che costituisce uno dei motivi del suo fascino ma anche il suo limite più evidente, specialmente se cerchiamo in questo libro ciò che esso non può darci. Il gran conflitto non è un libro di storia, anche se la prima parte di quest'opera si sofferma su alcuni momenti significativi della storia occidentale. Inoltre si tratta di un'opera che risente profondamente del clima religioso, sociale e politico del suo tempo (la fine del XIX secolo) ed è sullo sfondo di quel periodo che vanno valutati giudizi e prospettive che l'autrice esprime sulla storia della chiesa.

Nella seconda metà dell'Ottocento, infatti, l'ecumenismo era appena agli albori e il Vaticano si trovava arroccato sulle posizioni ultra-reazionarie del Sillabo di Pio IX, almeno fino alle encicliche Libertas (1888) e Rerum novarum (1891) di Leone XIII che ne mitigano alquanto l'asprezza.1 Il libro non è neppure un'esegesi puntuale dell'Apocalisse, pur descrivendo a lungo le scene finali dell'umanità nella prospettiva delle profezie apocalittiche... Eppure Il gran conflitto continua a essere letto e tradotto in moltissime lingue: si calcola che sia stato letto da oltre venti milioni di persone. Sorge quindi spontanea una domanda: a cosa deve questa sua continua "rilevanza" (addirittura a livello mondiale) in un'epoca così lontana, per tanti aspetti, da quella che ne ha visto la nascita?

Composizione dell'opera

Per tentare di offrire qualche risposta, dobbiamo iniziare facendo riferimento all'autrice, Ellen G. White, e al periodo storico in cui visse. È necessario chiarire subito che Il gran conflitto è per certi aspetti un'opera collettiva, non è il frutto di un'elaborazione personale, ma la sintesi, se così possiamo dire, di un giudizio storico di studiosi protestanti della prima metà del XIX secolo. Studi recenti2 hanno dimostrato il profondo influsso di autori quali Daniel March, James A. Wylie, J.H. Merle d'Aubigné e di studiosi Avventisti del 7° Giorno (cioè appartenenti alla stessa denominazione religiosa dell'autrice) come Uriah Smith e John N. Andrews. Anche se spesso non sono citati (l'idea del "copyright" si affermò definitivamente solo nel XX secolo), il pensiero e le valutazioni di questi autori permeano tutta la prima parte del libro. La genesi di quest'opera è piuttosto elaborata. Infatti essa inizia con il quarto volume di The Spirit of Prophecy (1884), lavoro ampliato nel 1888 con il titolo originale di The Great Controversy between Christ and Satan. È proprio nel corso di questo ampliamento che fu inserito molto materiale tratto dalle opere degli autori citati.3 Nell'edizione finale del 1911 alcuni di questi prestiti letterari (circa 400 riferimenti a 88 autori) furono esplicitamente riconosciuti; di altri invece (soprattutto per quanto riguarda la loro consistenza) siamo venuti a conoscenza solo recentemente.

Il pensiero dell'autrice si colloca all'interno della teologia dei movimenti di risveglio evangelico che fanno riferimento al ritorno del Cristo. Il movimento avventista, di cui Ellen G. White fu certamente tra i maggiori protagonisti, si distinse per l'enfasi che poneva sui "segni dei tempi" e cioè sull'attenzione alla storia come scenario del conflitto fra il bene e il male, fra Cristo e Satana.

L'avventismo si riconosceva come erede del protestantesimo classico e non come fenomeno settario e marginale. È proprio per questa rivendicazione di ortodossia e di continuità storica che l'autrice sorvolò per esempio sull'avversione di Lutero e Melantone all'osservanza del sabato (nonostante il recupero del sabato biblico avesse un'enorme importanza per gli Avventisti del 7° Giorno), così come ignorò il rifiuto di Miller di aderire al movimento religioso a cui lei stessa apparteneva. Nonostante ciò, sia Lutero, sia Miller, sia Calvino (di cui la White non condivideva l'idea della predestinazione) sono presentati in quest'opera come eroi della fede. Questo recupero del passato fu possibile perché gli Avventisti del 7° Giorno non ritenevano di essere gli unici beneficiari della grazia di Dio e non pensavano che la salvezza fosse riservata unicamente al loro piccolo gruppo.

La concezione della storia

A questa apertura di fondo, a questa identificazione avventista con la tradizione protestante, si ricollega l'uso frequente che Ellen G. White fa di autori del suo tempo, spesso storici, ma anche teologi o semplici commentatori del testo biblico. Naturalmente la "selezione" di giudizi o resoconti storici risponde a un piano generale, tipico dell'opera. L'idea di fondo è che l'azione di Dio in favore dell'uomo non si è fermata al tempo degli apostoli, ma è continuata e prosegue tuttora -- nella storia "profana" -- a partire dalle minoranze religiose perseguitate nel medioevo (gli albigesi, i valdesi, ecc.), passando per la Riforma protestante, fino alla Rivoluzione francese e ai risvegli pietistici sorti fra il 1700 e il 1800. L'azione di Dio si rivela chiaramente nel conflitto che vede in campo due forze: il bene e il male. Secondo la tradizione cristiana questi princìpi trovano espressione completa rispettivamente in Dio e nel diavolo, ma si concretizzano nella storia degli uomini. Questa visione non vuole essere manichea: infatti il male, o Satana, non ha un'esistenza autonoma ed eterna, è "semplicemente" espressione di scelte contrarie alla volontà di Dio. Egli rispetta la libertà delle sue creature ed è questo il fondamento del libero arbitrio e quindi della storia stessa dell'uomo. Per Ellen G. White la storia non è il frutto del caso o di semplici ambizioni umane, ma in essa traspaiono (per chi voglia vederli) azioni e progetti pro o contro il piano che Dio ha per l'umanità.

Agli occhi di un lettore smaliziato questa visione può apparire ingenua o perlomeno unilaterale ed è per questo che il libro va letto, appunto, non come un libro di storia, ma come un libro di riflessioni sulla storia, sulla contraddittorietà delle passioni umane, ma anche sulla razionalità di fondo che nella storia si può intravedere per opera dell'invisibile mano di Dio. I singoli episodi non vanno dunque valutati sulla base della loro esattezza storica (per es. il capitolo 15 sulla Rivoluzione francese presenta diverse inesattezze) o sulla completezza delle valutazioni offerte (i princìpi della Riforma e lo stesso Lutero sono ritratti nei loro momenti migliori), bensì sulla base del senso che questi avvenimenti offrono al quadro generale della storia, che in questo libro è particolarmente avvincente e consolante. La storia non è un'accozzaglia di fatti, ma ha un senso: Dio interviene in favore degli oppressi, nonostante l'opposizione dei potenti. Da questo punto di vista si spiega la costante attualità del libro: l'immagine che emerge è quella di un Dio democratico che rispetta la libertà dell'uomo, ma che si fa garante della giustizia e della verità contro l'oppressione e la falsità.

Non è difficile capire come questi valori risultino ancora oggi di grande attualità, nel Terzo Mondo come nei paesi occidentali.

Il problema ecumenico

Alcuni anni fa il giornalista cattolico Vittorio Messori scrisse sulla rivista Jesus che è difficile trovare un libro così violentemente anti-cattolico come Il gran conflitto. Per molti aspetti Messori ha ragione, ma non dimentichiamo che il libro fu scritto appena una quindicina d'anni dopo il concilio Vaticano I (1869-70), concilio che decretò l'infallibilità papale ex-cathedra, provocando per questo lo stupore e l'indignazione di tutto il mondo protestante e uno scisma all'interno dello stesso cattolicesimo (i "vecchi cattolici"). Sotto il pontificato di Pio IX la Chiesa Cattolica si espresse contro la libertà di coscienza, contro la democrazia e contro il dialogo ecumenico. Il clima "antimodernista" durò praticamente fino al Concilio Vaticano II (1963), che rappresenta una svolta storica per la Chiesa Cattolica. Tuttavia con l'ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II assistiamo a un parziale ritorno a posizioni pre-conciliari, un'inversione denunciata pubblicamente da numerosi teologi cattolici di tutto il mondo ed esaminata attentamente in un libro dal titolo significativo: Contro il tradimento del Concilio.

La domanda provocatoria che in questo studio pone lo storico e teologo cattolico Georg F. Denzler è la seguente: Giovanni Paolo II perché non si è chiamato Pio XIII? Sulla scia dei papi reazionari Pio IX, X, XI e XII, l'attuale papa ritorna alla pratica, sancita dal Vaticano I, di un potere papale "su tutti i pastori e fedeli come su ciascuno di essi",4 un centralismo papale assoluto che hanno subìto dolorosamente teologi, diocesi ed episcopati di tutto il mondo.

Pur utilizzando un linguaggio attento alla sensibilità ecumenica, anche nella recente enciclica Ut unum sint, papa Giovanni Paolo II ha ribadito che "la missione del vescovo di Roma nel gruppo di tutti i pastori consiste appunto nel 'vegliare' (episkopein) come una sentinella... Spetta al successore di Pietro di ricordare le esigenze del bene comune della Chiesa, se qualcuno fosse tentato di dimenticarlo in funzione dei propri interessi. Egli ha il dovere di avvertire, mettere in guardia, dichiarare a volte inconciliabile con l'unità di fede questa o quell'opinione che si diffonde. Quando le circostanze lo esigono egli parla a nome di tutti i pastori in comunione con lui. Egli può anche -- in condizioni ben precise, chiarite dal concilio Vaticano I -- dichiarare ex cathedra che una dottrina appartiene al deposito della fede".5

L'organizzazione piramidale e verticistica della chiesa di Roma è particolarmente evidente nella promozione, ovunque sia possibile, di vescovi conservatori. Come scrive Denzler "il papa e la Curia romana fanno grandissima attenzione che vengano nominati vescovi solo candidati fedeli al Vaticano, e quindi conservatori",6 ipotecando così per molti anni la politica della chiesa. A loro volta saranno i cardinali, cioè quei vescovi promossi dal Vaticano, a eleggere il nuovo papa. Insomma, un circolo vizioso che non coinvolge mai i laici ai livelli decisionali: "Poiché la 'Chiesa ufficiale', nei suoi supremi rappresentanti, viene reclutata sempre e soltanto fra i sacerdoti, i laici -- come 'fanteria' della Chiesa -- finiscono inevitabilmente e senza speranza dietro alla gerarchia".7 Da questo punto di vista, le critiche mosse da Ellen G. White al papato sono ancora oggi pienamente giustificate. Naturalmente, certe posizioni non sono più quelle del secolo scorso: ad esempio sulla libertà di coscienza il papato, dopo averla disprezzata ufficialmente nel Sillabo, se ne è fatto ora un convinto assertore. Anche l'ecumenismo è ora ufficialmente promosso da Giovanni Paolo II che ha riabilitato persino Lutero, ha chiesto perdono per gli abusi del passato operati dal papato8 e ha organizzato spettacolari incontri ecumenici in favore della pace e della giustizia. Tuttavia sono necessarie alcune considerazioni: nella realtà locale l'ecumenismo non è incoraggiato, anzi, figure autorevoli in campo ecumenico come quella di mons. Sartori (per anni presidente dell'associazione dei teologi cattolici italiani) sono state chiaramente osteggiate dal Vaticano. Scrive Sartori nella prefazione al suo libro L'unità della Chiesa, un dibattito e un progetto: "C'è una minoranza resistente, che sta riuscendo a imporre una stagione 'invernale', alla 'speranza conciliare', gettando sospetti su chi nutre quella speranza tacciandola di illusione pericolosa".9

Ancora Sartori mette in evidenza la tendenza dell'ecumenismo cattolico a sottolineare aspetti come la preghiera e l'impegno comune per problemi come la pace, il rispetto del creato, la giustizia, "mentre il settore della riforma della chiesa e quello del dialogo teologico sembrano ormai quasi del tutto esauriti, o comunque rimangono nelle mani di pochi responsabili 'affidabili'".10

Da un lato assistiamo a incontri come quelli di Assisi con la partecipazione di rappresentanti di quasi tutte le religioni del mondo -- incontri organizzati e convocati dal papa -- dall'altro quando sono altri organismi ecclesiastici a preparare incontri simili, meno spettacolari ma ben più concreti, allora il Vaticano manda "osservatori" tutt'altro che autorevoli, come è accaduto nel 1990 a Seul per l'assise organizzata dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (Cec) sul tema della pace, della giustizia e dell'integrità del creato. Il motivo offerto ufficiosamente per questo disimpegno cattolico è abbastanza semplice: come disse Giovanni Paolo II a Ginevra proprio di fronte al Cec "la Chiesa Cattolica con piena fedeltà verso la tradizione apostolica e verso la fede dei Padri, ha conservato nel ministero del vescovo di Roma il punto di riferimento visibile e il garante dell'unità".11

Dunque se devono esserci incontri e risoluzioni impegnative per i vertici delle chiese, si possono realizzare solo se "il primato di Pietro" viene riconosciuto o se una "convocazione" parte da Roma. Accettare di co-organizzare qualcosa a livello mondiale, sia pure in favore della pace, significherebbe per l'attuale pontefice equiparare le altre chiese a quella cattolica, il che non può avvenire finché non c'è un chiaro riconoscimento del primato papale, non solo in termini di primato di "onore" come sarebbero disposti a concedere gli ortodossi, ma in termini di "primato" effettivo e giuridico, sull'eventuale confederazione delle chiese cristiane.

Nel paragrafo relativo alla condizione necessaria per l'unità tra le chiese particolari e la chiesa di Roma, Giovanni Paolo II ha scritto nell'enciclica Ut unum sint: "La Chiesa Cattolica, sia nella praxis sia nei testi ufficiali, sostiene che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro vescovi con il vescovo di Roma, è un requisito essenziale -- nel disegno di Dio -- della comunione piena e visibile... Questa funzione di Pietro deve restare nella Chiesa affinché, sotto il suo solo Capo, che è Cristo Gesù, essa sia visibilmente nel mondo la comunione di tutti i suoi discepoli. Non è forse un ministero di questo tipo di cui molti di coloro che sono impegnati nell'ecumenismo esprimono oggi il bisogno?"12

Uno dei motivi per cui la Chiesa Cattolica non è membro effettivo del Cec è proprio il mancato riconoscimento (finora) del primato di Pietro. D'altra parte, assecondare le pretese papali significherebbe rinunciare ai princìpi del protestantesimo e, in generale, a quelli del Vangelo in cui leggiamo la famosa raccomandazione del Cristo: "...I re comandano sui loro popoli e quelli che hanno il potere si fanno chiamare benefattori del popolo. Voi però non dovete agire così! Anzi, chi tra voi è il più importante diventi come il più piccolo; chi comanda diventi come quello che serve".13 Anche se oggi la Chiesa Cattolica non brucia più gli eretici, e chiama fratelli i cristiani protestanti, tuttavia il dissenso all'interno della Chiesa Cattolica, è ancora duramente represso. Il gran conflitto, sia pure ambientato in un'epoca storica diversa dalla nostra, dovrebbe far riflettere sul possibile carattere autoritario, dogmatico e intollerante che anche in futuro, in altre circostanze storiche, potrebbe riemergere con violenza dalla gerarchia cattolica. Il vasto influsso politico del Vaticano, riconosciuto recentemente anche dagli Stati Uniti e dai paesi ex-comunisti con l'invio di regolari ambasciatori alla Santa Sede, resta un "unicum" in tutto il mondo cristiano, al servizio di una struttura politico-ecclesiale che non ha basi democratiche, né pretende di averle, in nome di un malinteso principio teocratico.

La prospettiva della fine dei tempi

La seconda parte de Il gran conflitto consiste in una spiegazione delle profezie escatologiche che si trovano nel libro biblico dell'Apocalisse. Ciò che appare difficile da accettare nelle spiegazioni offerte da Ellen G. White è l'importanza attribuita al sabato come fattore scatenante di una persecuzione all'interno del mondo cristiano e il ruolo decisivo che in questi eventi giocherebbe lo spiritismo. Anche in questo caso, come giustamente osserva in un articolo di Spectrum lo studioso avventista Jonathan Butler,14 occorre tener conto del contesto storico in cui Ellen G. White scrisse. Nel 1888 il senatore H. W. Blair presentò al Congresso degli Stati Uniti una proposta di legge per rendere obbligatorio il rispetto della domenica. Per Blair e altri cristiani del tempo (sotto l'ombrello della National Reform Association, un'associazione di cristiani conservatori nata nel 1864), il rispetto del giorno di riposo era cruciale per la conservazione "delle libertà, del nostro governo, della nostra civiltà inglese".15 Viceversa il mancato rispetto della domenica era comunemente ritenuto all'origine di molti problemi sociali, addirittura si pensava che fosse stato la causa indiretta dello scoppio della guerra civile. La cosa non deve stupire: a quel tempo l'identità di un'America protestante era ritenuta un punto qualificante per la preservazione dello stato e della coesione sociale. Ellen G. White condivideva questa idea di fondo, ma facendo parte di un gruppo minoritario vedeva nel tentativo di imporre certi princìpi religiosi "l'inizio della fine". Bisogna infatti ricordare che gli Stati Uniti costituivano per gli americani del tempo (e non solo per gli americani) un vero e proprio laboratorio politico, sociale e religioso da cui dipendeva il futuro di tutta l'umanità. Fallire in America significava fallire a livello cosmico. La fine della democrazia, della separazione fra stato e chiesa, avrebbe segnato per Ellen G. White il preludio della fine della storia. Dio aveva infatti affidato un ruolo, un destino di civiltà, agli Stati Uniti e tradire questo ruolo avrebbe comportato la fine della pazienza di Dio verso il mondo intero.

Quello che Ellen G. White leggeva sulle pagine dei giornali era proprio questo: il tradimento, profeticamente anticipato, del ruolo americano nei confronti del mondo. Utilizzando verbi al tempo presente, Ellen G. White scrive a 448 de Il gran conflitto: "Nel movimento che si va delineando negli Stati Uniti [In the movements now in progress in the United States...]" per assicurare alle istituzioni e alle tradizioni della chiesa l'appoggio dello stato, i protestanti non solo seguono le orme dei sostenitori del papa, ma spalancano addirittura la porta affinché il papato riconquisti nell'America protestante la supremazia perduta in Europa". E ancora a pag. 452: "Dalla metà del XIX secolo gli studiosi delle profezie, negli Stati Uniti, presentano al mondo questa testimonianza. Negli eventi che si stanno verificando sotto i nostri occhi, si nota una rapida progressione verso l'adempimento di questa predizione". Questo uso del tempo presente si applica anche al potere dello spiritismo, un fenomeno pseudo-religioso e scientifico che all'epoca ebbe grande risonanza presso l'opinione pubblica americana. Nel 1870 lo spiritismo poteva essere addirittura considerato come la terza forza all'interno del cristianesimo, dopo il protestantesimo e il cattolicesimo.16 Infatti, in molti casi, gli spiritisti si professavano cristiani. Tuttavia la congiura delle tre forze citate, prevista da Ellen G. White e plausibile al suo tempo, si rivelò ben presto improbabile: lo spiritismo non riuscì a ottenere il consenso del mondo scientifico e intorno al 1875 il suo influsso sul pensiero religioso americano cominciò a diminuire,17 anche se la "filosofia spirituale" sopravvisse fino agli inizi del XX secolo. Successivamente si trasformò in un fenomeno di stampo chiaramente occultista e nel suo versante pseudo- scientifico riemerse come scienza "para-psicologica". Tuttavia è difficile, attualmente prevedere una congiura cattolico-protestante-parapsicologica su un tema così poco sentito quale il rispetto del giorno di riposo. Ormai la società occidentale non è più una società di impronta religiosa come nel secolo scorso. Possiamo comunque trarre alcune considerazioni di attualità dalle previsioni di Ellen G. White, descritte in uno scenario apocalittico di intolleranza e persecuzione. Infatti, quando viene calpestata la dignità umana, si perde il senso profondo del sabato. Il sabato fu istituito non solo per commemorare la creazione (cfr. Esodo 20:11), ma anche per ricordare la liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto (cfr. Deuteronomio 5:15), cioè per rivivere nella mente e nel cuore un momento della storia d'Israele che la Bibbia propone come paradigma della liberazione dell'uomo da ogni oppressione. Troppo spesso invece le chiese sono state la solenne legittimazione dello status quo, dell'oppressione dell'uomo sull'uomo: in altre parole, l'oppio dei popoli. Il riposo del sabato non va inteso dunque come fuga dalla realtà, ma al contrario rappresenta l'ubbidienza incondizionata alla volontà di Dio. E ubbidire a Dio significa automaticamente porsi dalla parte dei deboli. Il sabato -- come ci mostra Gesù nei Vangeli -- è il momento privilegiato e il simbolo stesso di un servizio in favore dell'uomo. È proprio su questa fondamentale comprensione della fede cristiana che si gioca il conflitto tra Cristo e Satana. Il gran conflitto indirettamente ci avverte che ci sarà sempre qualcuno che non sarà d'accordo con questo modo d'intendere il cristianesimo, ci sarà sempre qualcuno che considererà la fede solo come strumento di consenso a buon mercato. Tutto questo durerà sino alla fine, fino al ritorno del Signore, poiché "...secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, ne' quali abiti la giustizia". 2 Pietro 3:13.